
Quando ho presentato le dimissioni dal mio lavoro statale e ho deciso di provarci, come libera professionista, mi sono data una serie di regole da seguire, perché non fosse un salto nel vuoto, o forse perché almeno non lo sembrasse.
Mi sono imposta di vestirmi tutti i giorni e non restare in casa a ciondolare in pigiama, mi sono messa a lavorare anche quando mi sembrava che ci fosse troppo poco da fare, mi sono data degli orari, perché ci fosse un tempo massimo di lavoro, ma anche uno minimo e soprattutto mi sono detta: se in due anni non funziona chiudo tutto e vado a friggere pizzette.
Non volevo diventare una di quelle persone che ci prova per tutta la vita senza mai riuscirci. Il lavoro è quello che mi rende una persona autonoma e indipendente e farlo funzionare è stata la mia priorità fin dal principio. Non sono diventata freelance per diventare ricca (non mi sono mai neanche illusa che potesse accadere), non l’ho fatto per essere libera e felice come una farfalla, e neanche per inseguire quell’idea che il tempo fosse tutto mio. Sono diventata freelance per fare ciò che mi riusciva meglio e per farlo a modo mio, l’ho fatto per non dovermi mai più sentir dire: “non sei pagata per pensare” (tratto da una storia vera).
E da freelance in effetti devi pensare moltissimo e devi pensare a tutto. Tu sei la contabilità, l’ufficio commerciale, la segreteria, e il professionista, sei una piccola azienda, anche se ti metti le stesse scarpe di sempre e le tuo giornate contano le stesse 24 ore che avevano prima della partita IVA.
Ventiquattro ore per volta, comunque, quei due anni sono passati e mi hanno trovata, a fine di novembre dello scorso anno, seduta per terra, dentro il cantiere di una nuova cucina che ho potuto comprare grazie ai soldi guadagnati e messi da parte, grazie al mio lavoro. Non ho potuto scaldare l’olio per le pizzette ma credo di aver avuto le mie buone ragioni.
Non mi considero una che ce l’ha fatta, adesso i miei obiettivi sono altri (tipo uscire dai minimi con un anno di anticipo e un bel fatturato sostanzioso), ma essere riuscita, in questi due anni, non solo a sopravvivere ma a crescere, come persona e professionista e a far funzionare le cose abbastanza da fare un nuovo investimento su me stessa è già stato un bel traguardo e qualcosa, nella strada che mi ha portata qui oggi, credo di averla capita.
Sono queste le nuove consapevolezze che si sono – durante questi due anni – materializzate, è su queste basi che sto costruendo i nuovi progetti per il futuro, sono le cose più importanti che ho imparato in due anni da freelance.
L’ansia non ti abbandona (ma la puoi gestire)
Ho pensato a lungo che l’ansia fosse una faccenda da principianti, dopo si diventa più sicuri, ti passa. Credici.
L’ansia non passa mai. Saltelli dall’ansia per essere lì dove sei a quella di non farcela, poi c’è l’ansia dei nuovi preventivi, quella di non avere abbastanza clienti, quella di aver detto i primi no, quella dei clienti grossi e più pretenziosi, delle cose nuove da fare, di non essere cresciuti abbastanza poi anche l’ansia di respirare, qualche volta.
Non passa. Un po’ perché in questo giro di ansiosi io sono il capogruppo con la bandierina, un po’ perché le cose cambiano di continuo e avrai sempre qualcosa di nuovo a farti preoccupare, a mettere in pericolo quel fragile equilibrio che ti sembra di aver costruito.
Non si tratta di far sparire l’ansia ma di gestirla. Di affrontare i momenti più complicati in qualche modo, di trovare qualche piccola certezza a farci da ancora mentre tutto il resto sembra (e qualche volta è) mare grosso. La mia? Il business plan.
La passione non basta
In un mondo in cui più o meno tutti fanno il lavoro sbagliato al posto sbagliato e lo fanno – a giusta ragione – per i soldi da portare a casa, quella del freelance è una scelta che lascia intendere, specialmente a chi non lo è, che se sei appassionato di qualcosa puoi farlo diventare il tuo lavoro e sarà una figata pazzesca.
NO.
Non so come dirlo con altri giri di parole, non è così che funziona. La passione è una faccenda effimera, è quello che ti spinge ad amare oggi i Baustelle anche se da ragazzina ascoltavi i Take That, è quella che spinge me ad amare le piante e a tentare di salvare le orchidee e i cactus o che spinge mio marito a occupare il suo tempo libero tra schedine, saldatori e pesciolini. Il tutto senza essere esperti di musica, giardinieri, maker e senza nemmeno saper nuotare.
Passione ed entusiasmo non includono quel bagaglio di conoscenze e capacità che fanno di te un professionista, non bastano per diventarlo. C’è da farsi il culo ogni giorno, da mettersi a studiare, da competere su un mercato sempre più vario, grande e pieno di talenti, c’è da reinventarsi di continuo e continuare a cambiare tutto, c’è da fare i conti con la realtà e con i clienti e a quel punto – scommettiamo? – la passione s’ammoscia.
Se vuoi funzionare come freelance ti servono autodisciplina, proattività e resilienza.
Non sei il centro del mondo
Questa cosa qui mi si è chiarita del tutto durante una chiacchierata con Daniela e Mariachiara, due amiche ma soprattutto due donne e freelance che per me restano un enorme punto di riferimento.
Il fatto di curare in prima persona la propria comunicazione personale e di business e il fatto che – come freelance – spesso le due cose tendano a mescolarsi pericolosamente, ti regalano in fretta la percezione di essere il centro del mondo. Specialmente se la comunicazione funziona e ti ritrovi un po’ più esposto alle persone che ti guardano, là fuori.
In una giornata ricevi centinaia di email, messaggi, reaction su ogni tipo di canale e hai la sensazione che tutti stiano là fuori a guardarti. Sensazione che presto si trasforma in pressione perché se tutti ti guardano, certamente, sbaglierai qualcosa e sarà un dramma.
La verità è che tutti quei messaggi, quelle email, quei cuori e quelle attenzioni sono in realtà una minuscola fetta del tempo di ogni persona e questo è tutto quello che ognuna delle persone là fuori ti dedicherà.
Questo vuol dire che quasi nessuno (tranne te) starà a guardare o a ricordare per l’eternità i tuoi scivoloni (e chi non ne ha avuti, poi?): puoi continuare a ricordarglieli oppure decidere di usare quel tempo così piccolo per lasciare agli altri, di te, qualcosa di meglio.
Gli strumenti sono importanti ma lo sono più le idee
Ne ho parlato già qui, più di un anno fa, raccontando i passi fatti per migliorare il mio account e la mia comunicazione su Instagram: fatto è meglio che perfetto.
Ci arrocchiamo spesso – e mi ci metto dentro pure io – dietro all’idea che: le sue foto gli vengono meglio perché ha una reflex migliore, i suoi testi sono più belli perché ha il Mac e io ho un Acer del 1997, la sua crostata è più bella perché ha la tortiera di Emile Henry e io ho quella presa al mercato, il suo colloquio con il cliente è andato bene e il mio no perché ha comprato un tailleur di Max Mara e io ho quello dell’OVS.
La differenza tra quelli che ce la fanno e quelli che no è una sola: FARE invece di parlare, FARE invece di trovare scuse, FARE, anche se all’inizio non sarà proprio come lo volevamo, continuare a FARE, senza aspettare oltre, fino a che non lo sarà.
Fare è la parola chiave e fare con quello che si ha è il modo migliore per cominciare a fare e smettere di aspettare.
Siamo spesso già dotati di strumenti sufficienti a mettere in pratica le nostre idee, ma ci serve una scusa per non farlo e così aspettiamo di avere quelli giusti, e intanto guardiamo per aria, il mondo va avanti, gli obiettivi cambiano e non ne avremo ancora raggiunto uno.
Ho deciso di cominciare a scattare con lo smartphone, per Instagram, per risparmiare tempo e smettere di usare la reflex, che non era lo strumento adatto per la mia comunicazione. Ho cominciato con quello che avevo, uno smartphone già vecchio di qualche anno, e ho imparato ad usarlo al meglio delle sue possibilità. Poi l’ho usato anche per registrare video (per le mie Stories e presto per altri canali) e, mentre aspettavo di avere tutto al suo posto, ho realizzato decine e decine di videoricette che adesso, in parte, si trovano tra le mie storie in evidenza sul profilo Instagram. Sono perfette? Tutt’altro. Eppure hanno funzionato (al punto da essere state ampiamente copiate ovunque) e saranno sempre meglio, perché ogni volta imparo qualcosa di nuovo.
A funzionare sono le idee, più degli strumenti, più della perfezione.
I soldi contano
Milioni di siti per freelance e non più di un pugno di post in cui si parli chiaramente del fatto che far funzionare la propria attività da freelance vuol dire di fatto una sola cosa: fatturare.
Milioni di like, cuori, stelline e complimenti non pagano l’affitto, non pagano le bollette, le vacanze, le uscite con gli amici, il dentista, i lavori di manutenzione di casa e dell’auto e molte altre cose che nella nostra vita diamo più o meno per scontate.
Se con il lavoro da freelance non ci paghi queste cose non sei un libero professionista: sei un mantenuto, perché qualcuno li sta pagando per te.
I soldi contano moltissimo e sono l’unico vero indicatore di successo della tua attività, della tua piccola azienda. È importante farci caso, è importante contarli, chiederli, quando si elargisce una prestazione di lavoro. Dare valore al proprio lavoro, imparare a valutare economicamente il proprio lavoro, è fondamentale per mettere basi solide per il futuro.